GRAVE LUTTO AL CIRCOLO CHAPLIN DI TRIESTE. E’ SCOMPARSO GIANNI URSINI

Il 5 settembre, a 72 anni ci ha lasciato Gianni Ursini. Socio fondatore del Circolo, del cui Direttivo ha fatto parte per dodici anni, curando le schede sinottiche dei film e le relative biografie dei registi. Per molti anni ha introdotto i film proposti, dimostrando grande competenza, accompagnata da sincera modestia. Sempre presente e disponibile, fino a che la malattia glielo ha permesso; ironico e autoironico, amante della fantascienza (genere in cui ha pure pubblicato un breve racconto), del cinema d’azione, in particolare di quello fantascientifico, dei film non troppo fedeli ai libri (il prodotto cinematografico dev’essere altra cosa di quello letterario, soleva dire), ma anche dei film a sfondo sociale; appassionato fotografo, ex-ferroviere rimasto affettivamente legato al suo vecchio lavoro. Ha scritto molte recensioni su giornali locali (”Il Lavoratore”, “Konrad”) e noi, nel ringraziarlo, vogliamo ricordarlo pubblicando una delle sue ultime recensioni. Dato l’entusiasmo con cui ne parla, sarà presumibilmente questo, in suo onore, il film che aprirà quest’autunno la XIII edizione di Popoli in cammino – Cinema e migranti.

Circolo del Cinema Charlie Chaplin -Trieste

Recensione

Fuocoammare di Gianfranco Rosi

Ci sono certi film che ti entrano sotto la pelle lasciandoti un segno indelebile. Fuocoammare è uno di essi. In questo caso parlare di “documentario” mi sembra limitativo, perché si tratta di un vero capolavoro, e l’Orso d’Oro assegnatogli al Festival di Berlino è ampiamente meritato. Gianfranco Rosi mi aveva già parecchio impressionato nel 2014 con il suo Sacro GRA, ambientato a Roma nel Grande Raccordo Anulare, premiato con il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, ma in quel caso forse il film era troppo didascalico e spezzettato in vari episodi che nuocevano all’unità dell’opera. Fuocoammare si colloca su di un livello molto superiore. Come tutti sanno, il film è ambientato a Lampedusa, ma l’isola è raccontata seguendo due livelli di narrazione completamente diversi che vengono mostrati in sequenze alternate creando una serie di forti contrasti che polarizzano l’attenzione degli spettatori. In uno si segue la vita di ogni giorno di Samuele, un ragazzino di undici anni, e della sua famiglia. Nell’altro si raccontano le vicende degli immigrati soccorsi in mare dalle motovedette della guardia costiera. Nessun punto di contatto avviene fra questi due mondi, come se appartenessero a due galassie diverse. Solo il dottor Pietro Bartòlo, medico dell’isola, mantiene i contatti con tutte e due le realtà. Nella parte ambientata tra la popolazione dell’isola, il film racconta le giornate di Samuele, un bambino solitario che ama fare escursioni nell’interno in mezzo alla natura aspra e selvaggia dove gioca con la fionda e si arrampica sugli alberi per osservare gli uccellini. I suoi vorrebbero fare di lui un pescatore, ma Samuele non ama il mare, ogni volta che viaggia in una barca con il mare grosso sta male, e non è nemmeno capace di remare molto bene. La sua famiglia è di tipo patriarcale con un modello di vita legato ai ritmi di un tempo passato. In tutta questa parte del film non si vede mai un computer, un tablet, uno smartphone e nemmeno una playstation. In compenso si sentono raccontare vecchie storie di mare, come quella dei pescatori che sorpresi dalla tempesta lanciavano i razzi di segnalazione per chiedere soccorso, e sembrava che il mare stesso prendesse fuoco. Da qui il titolo del film, a cui fa pure riferimento ad una canzone intitolata proprio “Fuocoammare” che il solitario titolare di una radio privata manda spesso in onda. Guardando il film sembra quasi di sentire il profumo del sugo di pesce che viene cucinato la domenica, l’odore dell’asfalto bagnato dopo il temporale autunnale, l’aspro sapore salato del mare che si infrange sugli scogli che il pescatore di ricci respira a pieni polmoni prima di entrare in acqua. Tutto questo viene cancellato quando il film passa a narrare la vita a bordo delle motovedette che hanno il compito di recuperare i barconi pieni di immigrati alla deriva. Qui tutto è tecnologico e spersonalizzato al massimo. I computer abbondano, come pure i telefoni satellitari e gli schermi televisivi a bordo degli elicotteri che sorvegliano quel tratto di mare alla ricerca dei naufraghi. Anche le operazioni di salvataggio sono fatte in modo impersonale, senza nessun coinvolgimento emotivo da parte dei soccorritori, tutti vestiti con tute bianche impermeabili che li coprono dalla testa ai piedi lasciando libere solo delle fessure per gli occhi. Colpisce la scena nella quale i corpi degli immigrati quasi moribondi che non sono nemmeno più in grado di muoversi vengono gettati alla rinfusa nella scialuppa di salvataggio come se fossero dei sacchi di patate. Quelli che possono ancora camminare invece una volta a bordo delle motovedette vengono sottoposti alla procedura di Hot Spot con umilianti perquisizioni individuali mentre hanno ancora addosso i vestiti inzuppati di nafta ed acqua salata, una micidiale miscela corrosiva che, come spiega in seguito il dottor Bartòlo, può provocare ustioni anche mortali. Invece coloro che eseguono le perquisizioni ci scherzano pure sopra, e infatti uno di essi osserva “Qui se qualcuno accende un fiammifero, prendiamo tutti fuoco”. Evidentemente l’abitudine a simili spettacoli indurisce talmente il cuore di certi individui che gli immigrati non vengono più considerati delle persone, ma dei semplici oggetti. Per fortuna ci sono tanti altri come il dottor Bartòlo il quale ad un certo punto afferma che ci sono cose alle quali non ci si abitua mai. A ristabilire l’identità umana dei naufraghi ci pensa però il regista con le scene girate a stretto contatto con gli immigrati nei centri di raccolta dove riscoprono la voglia di vivere e trovano perfino la forza di giocare una partita di pallone. La canzone che essi ad un certo punto improvvisano raccontando le peripezie e le sofferenze del viaggio impressiona per la potenza comunicativa, sembra il lamento degli schiavi di una delle galere dirette verso gli Stati Uniti nel secolo diciannovesimo. La cinepresa del regista indugia soprattutto sugli occhi degli uomini e delle donne, occhi che parlano e che hanno visto cose che non si possono raccontare. Avrei ancora mille altre cose da dire su questo bellissimo film che mi ha colpito nel profondo. Il regista Gianfranco Rosi ha raccontato di avere vissuto per un anno a Lampedusa allo scopo di farsi accettare dalla popolazione locale e capire la realtà di quel piccolo mondo circondato dal mare. Sua è anche la sceneggiatura e soprattutto la fotografia limpidissima. con delle variazioni di tono e colore stupefacenti. Meravigliose le riprese subacquee notturne, tra le più belle che io abbi mai visto. Il regista ha voluto fotografare pure l’eclisse parziale di sole del 20 marzo 2015, forse per rappresentare l’eclissi dell’umanità, dell’Europa che ha reso il mare assassino.  Nessuno dei personaggi che appaiono nel film è un attore professionista. Ognuno interpreta semplicemente sé stesso, e lo fa con una naturalezza stupefacente. E niente doppiaggio. Tutti parlano in dialetto, ed i dialoghi sono accompagnati da sottotitoli. Le uniche scene in qualche modo “costruite” sono quelle nelle quali appare il dottor Bartòlo che parla in perfetto italiano e racconta a modo suo le due realtà con le quali deve convivere. Per il resto tutto accade con una spontaneità stupefacente, che ricorda le migliori opere del cinema neorealista. Insomma, un film che fa onore alla cinematografia italiana che la cui visione dovrebbe essere resa obbligatoria a tutti quegli xenofobi della Lega Nord & C., che vorrebbero sbarrare i confini e ributtare gli immigrati a mare.

Gianni Ursini

 

foto gianni ursini  Grazie!

 

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